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Il Sole 24 Ore

06-03-2015  | Allegato Il Sole 24 Ore(6_3_2015).pdf Invia Invia mail ad un amico Stampa Stampa

Sol  Trujillo  torna  in  pista  per  Telecom  Italia.   L' ex  manager  di  AT&T  ed  ex  ceo  dell’australiana  Telstra, non  si sarebbe  fatto  scoraggiare  dalle  tiepide  risposte  e  dalle  prese  di  distanza  che  il  suo  giro  estivo  nei  palazzi  romani  aveva raccolto.   In  Telecom  nessuno  l' ha  visto.   Perlomeno,   a  settembre  il  residente  Giuseppe  Recchi  aveva  detto  tranchant:

«Non  ci  ha  mai  chiamato.   Per  me  non  esiste.   Non  abbiamo  contatti».   Eppure  a  Roma  Trujillo  aveva  bussato  a  molte porte.   Il  presidente  di  Cdp,   Franco  Bassanini,   sempre  a  fine  settembre,   aveva  ammesso  di  averlo  incontrato:  «L' ho visto  alcuni  mesi  fa,   ma  quando  ho  capito  che  il  tema  era  quello,   gli  ho  detto  che  aveva  sbagliato  indirizzo,   perchè  noi non  siamo  azionisti  di  Telecom  Italia».   Anche  Raffaele  Tiscar,   vice­segretario  generale  alla  presidenza  del  Consiglio, aveva  confermato  di  aver  incontrato  il  manager  americano:  «Ha  un  curriculum  di  tutto  rispetto.   Mi  ha  illustrato  le  sue idee».
Il  vice ­ministro  per  le  Comunicazioni  Antonello  Giacomelli  aveva  invece  negato  di  «aver  mai  partecipato  a riunioni  operative  di  questo  tipo  perché  sono  determinato  a  rispettare  uno  spazio  che  compete  a  soggetti  privati  anche se,   come  Governo,   saremo  altrettanto  determinati  a  utilizzare  i  nostri  poteri  se  ritenessimo  che  ce  ne  fosse  bisogno».

Ma  perchè  il  manager,   con  aspirazioni  da  finanziere,   avrebbe  dovuto  battere  anzitutto  gli  ambienti  governativi,   o comunque  esponenti  di  spicco  del  settore  pubblico  per  approcciare  una  società  privata? 

Perchè  Trujillo  aveva  ipotizzato  più  di  una  semplice  collaborazione  pubblico­privato  per  Telecom  Italia  (il trasferimento  di  tutta  la  rete  fissa  allo  Stato)  e  non  avrebbe  perciò  mai  potuto  andare  avanti  senza  il  sì  del  Governo  di Roma.   Il  piano,   riassunto  in  un  documento  “personale  e  confidenziale”  che  porta  la  data  del  2  agosto,   sarebbe  stato confezionato  con  la  collaborazione  di  Francesco  Sacco,   docente  Bocconi,   uno  dei  tre  saggi  chiamati  ad  affiancare Francesco  Caio  per  dare  impulso  all' Agenda  digitale  sotto  il  precedente  Governo  Letta  e  tuttora  consulente governativo:  il  suo  nome  compare  tra  i  collaboratori  del  piano  banda  ultralarga  presentato  martedì  dal  Consiglio  dei ministri.

La  filosofia  di  base  era  mettere  insieme  un  «team  di  esperti  del  settore  e  di  investitori  a  lungo  termine»,   per  un «progetto  industriale  di  management  buy­in»  finalizzato  al  «turnaround  di  Telecom  Italia»  e  a  «rafforzare  Tim  Brasil, anzichè  farla  a  pezzi».   Sol  Trujillo  si  proponeva  ovviamente  per  il  ruolo  di  ceo  della  compagnia  italiana,   per  «lavorare in  partnership  col  Governo  e  le  istituzioni  pubbliche»,   in  modo  da  «realizzare  le  ambizioni  del  Paese  nel  campo dell’information  and  communication  technology».

Sotto  il  profilo  finanziario,   la  conquista  di  Telecom  prevedeva  tre  step.   Il  primo:  ottenere  sufficienti  voti  per  forzare un  cambio  del  management,   rilevando  una  quota  intorno  al  20%  di  Telecom.   Chi  avrebbe  dovuto  mettere  il  quattrino?

Fondi  sovrani  sovrani  e  investitori  a  lungo  termine  che,   si  legge  nel  documento  del  piano  di  agosto,   avrebbero  gradito la  partecipazione  di  un’affidabile  istituzione  finanziaria  italiana  ­  citando  espressamente  Cdp  e  il  suo  Fondo  strategico con  l’apporto  di  un  “chip”  dell’ordine  di  mezzo  miliardo.
Il  secondo  step:  promuovere  un  aumento  di  capitale  in  Telecom  per  raccogliere  2, 5­3, 5  miliardi,   da  destinare  allo sviluppo  di  nuove  infrastrutture  e  servizi  e  a  migliorare  e  ampliare  la  rete  di  distribuzione.   Gli  investitori  portati  da Trujillo  avrebbero  messo  sul  piatto  1, 5­2, 5  miliardi  con  focus  sugli  investimenti  nella  telefonia  mobile.

Secondo  il piano,   un  altro  miliardo  sarebbe  dovuto  arrivare  da  un  gruppo  di  investitori  italiani  guidati  sempre  da  un’istituzione come  Cdp  con  focus  sulla  rete  fissa.   Corollario  di  questo  secondo  punto:  comprare  una  quota  in  Metroweb,   lanciare  un piano  per  la  rete  in  fibra  ottica,   per  poi  trasferire  la  rete  in  una  “NetCo”,   appunto  una  nuova  società  per  l’infrastuttura di  tlc.

Terzo  step:  creare  entro  un  anno  dall’ingresso  del  nuovo  management  la  società  della  rete,   con  un  perimetro  molto  più ampio  di  quello  discusso  in  passato  tra  Telecom  e  Cdp,   quando  si  parlava  di  scorporare  la  sola  rete  d’accesso.   Infatti oltre  alla  parte  finale  dell’infrastruttura,   il  piano  di  Trujillo  prevedeva  il  trasferimento  di  tutte  le  componenti  non necessarie  a  gestire  la  rete  mobile.   Con  un  colpo  di  scena  sul  controllo:  la  rete  fissa,   sempre  dichiarata  strategica  dalla compagnia  tricolore  sotto  tutte  le  gestioni  manageriali  dell’era  privata,   sarebbe  andata  al  51%  all’istituzione  italiana,
ipotizzata  nella  Cdp,   mentre  Telecom  si  sarebbe  dovuta  accontentare  del  49%.   Dal  trasferiment  di  asset  e  dal  contratto di  fornitura  con  Telecom,   la  Netco  avrebbe  dovuto  generare  abbastanza  cassa  da  rimborsare  il  debito  che  le  sarebbe stato  trasferito  da  Telecom  e  che  il  piano  quantificava  in  19  miliardi.   Sulla  NetCo  ci  sarebbe  stata  la  golden  share  dello Stato,   con  la  possibilità  di  rilevare  il  100%  della  società  della  rete  in  ogni  momento.   Naturalmente,   sottolineava  il documento,   è  importante  che  il  regolatore  non  persegua  una  politica  di  ulteriore  riduzione  delle  tariffe  all’ingrosso sulla  rete  fissa  (quelle  cioè  applicate  agli  operatori  di  tlc  che  utilizzano  il  network  per  rivendere  i  servizi  di  telefonia  ai loro  clienti)  ­  nè  rame,   nè  fibra  ­  dal  momento  che  queste  sarebbero  la  fonte  di  entrate  principale  per  la  nuova  società della  rete.

Un  piano,   quello  del  manager  americano,   da  realizzare  in  tre  anni  ­  tempo  breve  anche  per  un  private  equity  ­  con  tre vie  d’uscita  prospettate:  la  cessione  delle  azioni  sul  mercato,   per  realizzare  una  vera  public  company;  la  vendita  della quota  di  riferimento  a  un  «investitore  strategico»  (un  altro  gruppo  di  tlc?),   lasciando  all’istituzione  italiana  identificata nella  Cdp  il  diritto  di  veto  a  fronte  dell’ingresso  di  investitori  non  graditi;  formare  una  partnership  per  espandere
l’attività  «in  Africa  o  nell’Est  Europa/Medio  Oriente».

Ad  agosto  il  piano  non  era  andato  da  nessuna  parte  a  Roma,   oggi  ­evidentemente  con  qualche  necessario aggiustamento  ­  il  dossier  è  stato  proposto  ai  fondi  di  private  equity  (si  veda  il  pezzo  accanto),   ma  ancora,   pare,   con poche  chance  di  sfondare.

   
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